Avviato il Progetto Archivio Elettronico "Ettore Maestro"
Carissimi,
Durante la XXII Festa "Ricordando Ettore" che si è appena conclusa, abbiamo dato l'avvio ufficiale ad un nuovo progetto che verrà impegnata la nostra Associazione nella raccolta, catalogazione e digitalizzazione di materiale relativo all’opera di Ettore maestro. Trovate maggiori dettagli sull'iniziativa a questa pagina.
Il progetto è stato presentato attraverso una tavola rotonda a cui hanno preso parte Vittorio Delsante (Presidente dell’Associazione ed ex collega di Ettore), Donatella Canali (giornalista e scrittrice, ex alunna di Ettore) e Fabrizio Rosi (ex Direttore Didattico e collega di Ettore). Durante l'incontro, la nostra amica Daniela Stecconi ha letto alcuni brani tratti da uno dei primissimi documenti che abbiamo raccolto nell'ambito del progetto, ovvero una lettera che Ettore scrisse ad un suo ex alunno che stava svolgendo il servizio militare. La lettera, dal contenuto davvero toccante, è particolarmente significativa per comprendere il rapporto che Ettore instaurava con i suoi alunni, e contiene interessanti descrizioni di come venivano svolte le attività didattiche di Ettore, di cui sono anche spiegate le idee e le motivazioni.
Assieme alla lettera già citata, abbiamo raccolto anche alcuni giornalini composti da Ettore e dai suoi ragazzi nella scuola di Ozzano Taro, oltre ad alcune foto di classe, di cui una è particolarmente interessante perché dimostra l'organizzazione, alquanto particolare, della classe di Ettore: non vediamo infatti tanti banchi disposti in file parallele alla cattedra, ma un unico tavolone con i bimbi disposti su entrambi i lati lunghi; su quelli corti, da una parte c'è la cattedra di Ettore, mentre dall'altra ci sono due banchi a formare una sorta di "allungo" del tavolo. Ma ancora più interessante è la vista delle pareti sullo sfondo, ai quali sono addossati tavoli e scaffali su cui vediamo vari sassi disposti in bell'ordine (evidentemente frutto di un'attività di raccolta e catalogazione), un banco da lavoro con pennelli, colori e barattoli, ma soprattutto, appesi alle pareti, i quadri dipinti dai ragazzi e, appena sotto, appesi a delle corde per poter essere sfogliati facilmente, tutti i giornalini di classe, tirati al limografo o al ciclostile.
Per ragioni di privacy delle persone ritratte, per il momento non ci è possibile pubblicare l'immagine, ma essa è consultabile, assieme a tutto il resto del materiale raccolto. Per informazioni, potete scriverci all'indirizzo archivio@amiciguatelli.it.
Pubblichiamo invece qui sotto il testo pressoché completo della lettera ad Enrico; abbiamo omesso un brano in cui Ettore analizza la personalità e le doti di alcuni scolari, chiamandoli per nome: lo fa con estremo amore e rispetto, ma preferiamo non riportarlo in questa sede. Il testo completo è consultabile con le stesse modalità esposte sopra. Abbiamo inoltre scelto di riportare fedelmente il testo originale, anche quando ci sembrava fossero presenti alcune sviste o piccole incongruenze.
Ozzano Taro, 25 Dicembre 1985Caro Enrico,Ho avuto tanti scolari, che magari mi hanno fatto arrabbiare, come dici tu, anche più di te, e nessuno mi ha scritto parole come le tue. Immagina, quindi, quanto me le tengo care. È un po' di tempo che medito di dirti a lungo, non con poche parole, di quanta soddisfazione mi hai dato, ma forse è bene che abbia lasciato “filtrare” ciò che emotivamente mi passava dentro, per non cadere troppo nel sentimentalismo. Mi sarà già difficile egualmente. Vorrei dirti che si è uomini, e che nessuno è in grado di risparmiarsi tanto, da potersi portare dietro tutto se stesso, quando entra in scuola, con tutta la disponibilità fisica e psichica di cui dispone, con una serenità e una forza di dominio su se stessi che la stanchezza, hai voglia tu che le lasci! Io a non essere sposato, avrei dovuto entrare in scuola meno spremuto, più carico, più in grado di sopportare, se così si può dire, le contrarietà, la reticenza, la incapacità di apprendere o di accettare l'insegnamento (che non di rado coincidono con la non capacità di accostarsi alla possibilità, al modo di recepire e di intendere del singolo scolaro) e spesso quella non attenzione, quel distrarre gli altri (e l'insegnate) da far irritare e perdere la pazienza, e riversare tutta (si è dalla parte della forza, a stare in cattedra) la colpa sullo scolaro. Siccome è ormai comportamento naturale e diffuso, cioè normale, è anche vero che si finisce, una volta cresciuti, di sentire, come senti tu di dirmi che la colpa è dello scolaro (di cui il maestro in fine voleva il bene) e che il galeotto era lui. È vero: a quell'età, non si può che essere galeotti. Ma chi fa il maestro, o il professore, non lo sa che ha scelto un mestiere che lo obbliga a lavorare con i “galeotti”, e che se questi non ci fossero, non ci sarebbe neanche il suo mestiere? Quanti sono che hanno scelto di insegnare per amore del ragazzo e non per realizzarsi in quelle condizioni di “potere” che l'essere in cattedra ti mette a disposizione, e che fin da scolaro hai avuto a modello ? È umanissimo. È anche vero che in una classe, ci sono sempre quelli che “non fanno arrabbiare”, con cui ci si confronta e di fronte a cui, pur sorridendone, ci si sente un po' in colpa, sempre da scolari. E certo che questi, rendono molto più comodo fare l'insegnante, molto meno faticoso, per cui, naturalmente, inconsciamente ed egoisticamente, si finisce per avere “più gratitudine” per loro. E di esaltarli, da portarli ad esempio, da gratificarli con riconoscimenti (voti) più vistosi, migliori. Per indurre gli altri ad essere come loro (anche se non solo per comodità egoistica dell'insegnate.) E questo ha tanto il suo lato negativo, che, se ricordi, io avevo tentato di non dare i voti, che avrebbero dovuto essere sempre alti per certuni, e sempre bassi per coloro che alle cose e alle materie della scuola non erano portati. Ma per rimediare a una ingiustizia, se così si può dire, avevo finito per mortificare quelli che dalla scuola si erano proposti di avere (o per se stessi, o perché indotti dai genitori) tutte le soddisfazioni e che perciò vi impegnavano tutte le energie. Non sentendosi premiati, li vedevo pian piano spegnersi, perdere stimoli, distrarsi. Entro un certo limite, una “regolata” poteva essere utile, anzi, necessaria. Ma oltre, castrava. E allora qui vengono fuori i dilemmi, le ansie, i dubbi, e quindi la costante paura di non far bene, di coloro che cercano di attuare una scuola umana a misura d'uomo, di fronte a quella piatta, spesso castrante, meccanica, a cui l'uomo deve adattarsi, gli piaccia o no, quali siano i suoi tempi, la sua estradizione [sic], le sue condizioni famigliari, ecc. E vien da invidiare quell'insegnante che non si fa nessun dramma, e cammina sulle rotaie della tradizione, e chi vien dietro viene, e per chi non sa tenere il passo, c'è l'antico e sempre facile e comodo rimedio della bocciatura, dell'eliminazione. Che diventa marchio anche su persone che hanno dentro di sé la potenzialità di esprimere capacità che i “bravi”, a volte senza creatività e solo capaci di seguire, non hanno. E sono gli insegnanti considerati migliori, “bravi”, sia dai genitori dei primi, che da quelli degli ultimi, per esprimersi in linguaggio tradizionale. È naja, caro Enrico. E io a Gaiano mi ci sono trovato dentro. Ho dovuto aspettare che diventaste grandi, per avere la soddisfazione di sentirmi dire da te e da Luca Bertoli, “che i maestri dovrebbero essere tutti come lei”. E a Gaiano, come ovunque nella scuola, avevo buttato dentro tutto me stesso. Anzi, ero andato tanto oltre, specie nell'ultimo anno, e in particolare negli ultimi giorni, da ridurmi in uno stato pietoso: non ero più in grado di avere relazioni con altri, e tantomeno pazienza. Forse tu a dirmi che mi hai fatto arrabbiare ti riferisci in particolare all'ultimo giorno, quando agitando quella bottiglia di acqua gasata e tenendoci il dito sul collo, ne orientavi lo spruzzo contro i compagni. Cosa c'era di più innocente? Anche se, in quelle condizioni, io non avrei potuto reagire diversamente, avevo pur percepito che la mia reazione era spropositata: non c'era più possibilità di rimediare: era l'ultimo giorno, ed io lasciavo a te ed ai tuoi compagni un'immagine che non avrei voluto certamente lasciare. Per tanto tempo ho avuto dentro quel cruccio: temevo di essermi mangiato tutto quanto mi ero sforzato di insegnarvi, specialmente come esempio di senso di tolleranza. Ed ecco emergere la possibilità di non giudicare una persona solo per quello che di sbagliato ha fatto o fa, specie nei nostri confronti. Se è di buona razza, dopo averlo fatto non è già più la stessa persona. L'esperienza che si ricava dalla somma dei nostri errori, può essere maggiore di quella ottenuta vivendo senza commetterne, e trasformare in senso umano assai più un individuo, che non il continuo successo. Ognuno di noi ha commesso e commette errori, con chi ha a che fare, magari involontario, magari credendo di “avere ragione” e perciò di fare bene. Sono riflessioni che si fan dopo. Ti dicevo che io scapolo, avrei dovuto venire a scuola, cioè a “far scuola”, intatto, con l'intero me stesso a vostra disposizione. Invece, non mi contentavo mai di girare, di cercare, chiedevo sempre di più al mio fisico, senza mai lasciarlo riprendere. Mi si rimproverava. Addirittura qualcuno mi diceva che “sottraevo” energie e tempo alla scuola, che non preparavo i programmi, magari per il giorno dopo e che facevo scuola “inventando” ogni giorno. Se era vero per un verso, è anche vero che la nostra scuola era diversa proprio perché io andavo sempre in giro, o almeno anche per quello. A dire dell'umanità “del sapere”, della cultura della gente a cui appartenevamo, per la scuola e dentro alla scuola non c'era nulla. La democrazia non è soltanto o principalmente osservare e accettare pedissequamente o passivamente le leggi del proprio paese. È conoscerne la storia e le ragioni, la giustezza e gli errori che in essa si codificano o si sono codificate col tempo: in una parola, è conoscersi, e conoscere però anche le proprie condizioni, e principalmente, le ragioni delle proprie condizioni. Per arrivare ad avere coscienza di sé, senza illusioni ma anche senza nebbie. Negli oggetti e nelle testimonianze che andavo raccogliendo cercavo il supporto a questa mia “scoperta”, a questa sensazione di non giustizia, da parte di un potere e di una cultura così miopi e così pigri da non favorire, ma addirittura da temere che le cosiddette classi subalterne, senza voce e “senza cultura”, prendessero coscienza. Ma senza polemica, senza cattiveria, anzi, con amore anche per la cultura, per il sapere tradizionali, di cui non volevo spogliarmi, ma anzi a cui volevo aggiungere, per arricchimento e completamento, per una realtà che a trascurare avrebbe reso meno globale, meno obiettiva la nostra storia. E quel nostro sapere per cui si “perdono” nelle scuole tanti anni. Ero sgomento di fronte a tantissime testimonianze di esistenze, di potere, di cultura e di “superfluo” che si trovano nei musei delle classi dominanti. E soffrivo a veder marcire tanti meravigliosi oggetti che avrebbero potuto testimoniare concretamente anche della nostra esistenza, prima che sparisse come cultura omogenea, e non del tutto inquinata, e ho pensato di correre di buttare tutti i miei soldi ed il mio tempo e le mie energie allo scopo di raccogliere ciò che potesse restare a dire e a far chiedere di noi, della nostra cultura. C'era chi mi capiva e mi ammirava, e chi mi compativa o mi biasimava. Perché io non cercavo di raccogliere le cose “belle” dei poveri, magari le più belle, quasi a mettermi in antagonismo con quelle bellissime dei ricchi. Avrei sbagliato come penso che abbiano sbagliato coloro che facendo dei musei bellissimi (magari con roba trovata negli scavi, quando si tratta di musei archeologici) non si curavano di raccogliere dalle tombe anche le cose povere, quotidiane, anche se poi, trovando un attrezzo di ferro, magari una carrucola o un'accetta ricamati, li mettevano in mezzo a quelli disadorni – ma con la stessa efficienza – a far vedere con quanto amore un giovane fabbro abbia ricamato un attrezzo per il padre della ragazza che gli piaceva; o come il fabbro vero, lo avesse curato per un suo cliente di riguardo, o, avendo tempo, come abbia voluto per “soddisfazione” far vedere la sua bravura, e magari anche creare invidia, e voglia di averlo uguale o più bello, l'attrezzo, da parte di qualcuno che, potendoselo o volendoselo permettere, finivano per commissionarglielo, magari senza averne proprio bisogno. Il bello piacerebbe a tutti: ma chi se lo può, o meglio, chi se lo poteva permettere in un certo nostro tempo passato? Neanche gli artigiani stessi. Mi diceva (e sto già divagando) Paolo Restori, che tu forse conosci, falegname a Ozzano, mostrandomi mobili che si era fatto e si stava facendo per sé, in questi primi anni di pensione: “Magari adesso hai più esperienza, ma non è che anche allora non si fosse capaci, anzi: è che dovevo contentarmi, non potevo perderci tanto tempo, e metterci tanto legno buono: dovevi mangiare, e lavorare per quello.” E mostrandomi mobili quasi scialbi, solo funzionali, che si era fatto appena sposato, mi diceva “Ecco, vedi? Dovevi contentarti di questi. Certo il loro servizio lo hanno fatto, ma c'è confronto?” Se io avessi i soldi, vorrei comprare da Paolo, sia quei suoi primi mobili di casa, che questi, per testimoniare una condizione di cui ha detto con tanta chiarezza. Ma io ho raccolto cose meno belle dei primi mobili di Paolo, che pure hanno una loro dignità. Ho raccolto cose che, col benessere di oggi, ognuno si vergognerebbe non dico di avere nel solaio o di toccare, ma addirittura di ricordare d'aver posseduto. Eppure erano oggetti preziosi, contesi nelle suddivisioni, ambiti da chi sposandosi metteva su casa, cose che addirittura si rubavano: e si era invidiati se, scartandole, il padrone te “ne faceva dono”. In questo caso, però, sono cose da ricchi diventate vecchie e passate ai poveri, e ce ne sono o ce n'erano tante che han fatto la fortuna degli antiquari. E che a restaurare, potrebbero far bella figura anche nel museo dei contadini; ma allora sì che sarebbero falsate, perché non sarebbero più cose vecchie. Ci sono oggetti volevo dire, che possono benissimo stare sia nella casa del mezzadro o del poverissimo, che nella casa del padrone o benestante. E le ragioni le ho dette prima. I mobili veri autenticamente nati per i poveri, o addirittura fatti da loro stessi, se andiamo indietro molto, o molto in alto sui monti, lontano dalle strade, si trovano addirittura fatti nei tronchi cavi, o con delle assi fatte con l'accetta e inchiodate insieme, tutti simili, ma nessuno uguale. Salvo se fatti da un falegname, (arriviamo alle madie) e lo vedi dalla padronanza del mestiere, o se più tardi, se ha adoperato le macchine. Ma i mobili fatti in serie, da ricchi e da poveri, ci sono già da molto tempo, e ancora adesso ne trovi nei negozi da tutti i prezzi, cioè per tutte le categorie e le borse. È molto facile che il mobile da poveri di serie, vecchio, sia ancora più brutto, oggi, e che faccia chiedere: “ma tenevano questi schifi in casa?” Qualche volta sì. Ma a metterlo degradato cioè dopo smesso in una stanza in un solaio, o sotto un portico, vien brutto molto presto. E se a restaurarlo e lucidarlo, si falserebbe anche a vederlo così non sarebbe quello che il “povero” aveva in cucina.Mi si rimprovera di “prender su” anche questa roba, e mi si chiede se non abbia vergogna. Cosa dovrei rispondere? Qualcuno, e non certo per apprezzamento, quando chiedono di me, precisa: “Chi, lo stracciaio?” E la stessa sorte mi è toccata a Gaiano (ma prima anche altrove) perché parlavo dialetto. Volevo essere umile, smitizzare la figura e la persona, da accostarmi a loro, e lavorare insieme. È stata proprio tua madre che, nel riferirmi di avermi difeso, cogli altri genitori, mi ha detto di aver loro osservato: “No, ho sentito Guatelli parlare in italiano, e come se lo sa parlare!” Volevo far sentire, a voi e ai vostri genitori, che non era vero che noi fossimo completamente ignoranti, ma che solamente, sapevamo altre cose, che però non entravano nel sapere “scolastico”. Abbiamo fatto le nostre ricerche, abbiamo chiesto e fatto chiedere ai nonni e ai bisnonni, per capire con quali “concetti”, cioè in base a quale cultura regolavano il loro agire. Abbiamo scoperto riti poeticissimi, antiche maniere di curarsi di cui si è sorriso (e a cui però oggi si torna) credenze e superstizioni, rispetti e timori, usanze e tradizioni, personaggi, parole che sono andate perse e che ci fanno sorridere, ecc. Se non si sanno queste cose, come si fa a sapere com'erano i nostri antenati? Come si fa a spiegare certi loro comportamenti, e a capirli? E perché si dovrebbero sapere solo delle persone importanti? I nostri antenati, non sono per noi importanti come i nostri personaggi storici? Come si fa a conoscere noi stessi senza conoscere le nostre radici? “Sarebbe meglio che gli insegnasse la matematica” “o che gli facesse studiare i libri di scuola”, Ecc. Se non ho lavorato 12 ore al giorno, domenica e altre feste comprese, non ne ho lavorato una. Raccoglievo carta da tutti, dagli amici e dai conoscenti, proprio come uno straccivendolo, e andavo nel piacentino, vicino al Po, da un magazzeno di carta vecchia per barattarla coi rotoli di carta bianca da ricavarci i fogli per i vostri giornalini: 40 volumetti, di non so quante pagine, fatte dattiloscrivere sulle matrici e poi ciclostilati e composti da noi, anche al pomeriggio, o stampati con i caratteri mobili, in più di cento esemplari per titolo. E con usi e costumi, credenze, ecc. raccolti da voi. E le assicelle per dipingerci sopra? Mio fratello alla Dieterba prendeva quei fusti di compensato, chi io la sera, dopo cena, guastavo in inverno, per trarci sia il compensato, che i fondi rotondi, sempre in compensato, su cui dipingere. E quante cassette da verdura, abbiamo elemosinato, dai fruttivendoli, per recuperare il fondo di faesite, e dipingerci su con i colori a tempera da muro, con pennelli ricavati da grossi pennelli sfatti, e tubetti di alluminio delle vecchie antenne da TV dentro cui ne infilavamo un cioppetto e glielo schiacciavamo! E gli scalpelli da incidere e scolpire il legno e la pietra? Quanti stracciai ho girato per trovare molli di acciaio, da molare e appuntire o rendere taglienti, e quanti martelli immanicati, da avere ognuno la propria attrezzatura, senza sentirsi obbligato a far altro, intanto che gli altri scolpivano, o componevano, o dipingevano, o incidevano, ecc. Queste cose le facevo a casa, e di tempo alla scuola, non ne sottraevo di certo: quante volte tornavamo di pomeriggio, non sempre tutti, naturalmente. Ho sofferto molto, per non essere stato riconosciuto nel mio intento, ma mi sono bastate le tue parole e quelle di Luca, anche e specialmente dopo anni. Abbiamo fatto recita e mostra che hanno suscitato scandalo fra le colleghe che, come molti genitori, concepivano la scuola lontano dal lavoro e dai valori del lavoro manuale. Eppure oggi, dopo anni, si continua a fare a Gaiano quel che abbiamo iniziato a fare noi. Abbiamo chiamato il poeta Bertolucci, l'ingegnere giornalista De Vita a spiegarci l'automobile e la sua storia, in riferimento a quell'esemplare da scuola guida comprato dal circolo per la scuola. Ma abbiamo chiamato anche Colla a spiegarci delle acque che il comune ci forniva, e della storia delle acque a Gaiano e degli acquedotti, del pozzo. E Piva a spiegarci da meccanico, come Colla da operaio del comune, i guasti e il lavoro nel motore dell'auto. Abbiamo chiamato a testimoni e protagonisti, Salati, Bia, a parlarci del come si era vissuti in questa guerra, da soldati e prigionieri, e da bambini (Salati) e nell'altra, Bertè. Per far sentire che loro, i nostri nonni, o fratelli o padri, e il loro sapere, e il loro lavoro, e la loro esistenza, sono altrettanto preziosi e necessari, del sapere scolastico e degli insegnanti, e dei sapienti e dei capi, ecc. E ne abbiamo fatti altrettanti libretti. Che non sono “belli” come avrebbero potuto essere, se ci avessimo messo solamente la relazioni del “bravi” e avessimo sempre scartati i lavori dei meno bravi e di coloro che ripetevano. Per non umiliarli, per far sentire che ci eravamo necessari tutti. Per premiare tutti, se il “mettere sul giornalino” era premio. Scommetto che tu non li hai più: se li hai leggili, e vedrai quante cose fresche dicono anche coloro che altrimenti non avrebbero saputo né inventare, né andare oltre una riga o qualche riga. E il vecchio Gessati, il carbonaio che aveva anche fatto scuola a coloro che avrebbero dovuto andare militare e non avrebbero saputo scrivere a casa? Abbiamo cercato di far conoscere e di dar valore, se ciò che la scuola considera ne acquista uno, a quelle persone che nessuno considera, o che più in generale, che sono poco considerate, perché lavorano e si sporcano magari, e perché “non hanno studiato”. Io facevo la mia parte o cercavo di farla. Ma poi c'erano i genitori che ai figli che non studiavano gli prospettavano come punizione il lavoro “Guarda che se non studi ti mando a lavorare!” E ti posso pur dire che li capisco. Tu ti metti fra coloro che mi han fatto arrabbiare. Tiriamo via una volta per sempre quell'episodio dell'ultimo giorno, che però devo spiegarti dalla mia parte. Stavamo, se ricordi, finendo di ciclostilare gli ultimi giornalini, e di comporre di conseguenza, gli ultimi libretti da dare anche agli alunni delle altre quattro classi, perché anche loro ci avevano dato dei testi, sul tema “Chi siamo e da dove veniamo”. Non ce l'avevamo fatta prima. Volevo lasciare tutto fatto e ambivo anche lasciare una traccia da seguire. I genitori degli altri, vedendosi un librettino che anche i loro figli avrebbero potuto fare, chissà, avrebbero forse capito che non sarebbe poi stata eresia. E se ci fossero rimasti quei due miei colleghi con cui ci si era trovati in accordo ed entusiasmo, forse non si sarebbe[ro] trovati tanta ostilità come io avevo trovato. Andavo in pensione, era il mio ultimo giorno di scuola e fanaticamente, volevo finirlo. Ecco perché il tuo diversivo della bottiglia gasata mi aveva fatto scattare. Ma per il resto dell'anno, io non so se tu pensi di avermi fatto arrabbiare più del normale. Mi hai dato preoccupazioni, ma come tutti. Perché me le davano anche quelli che la scuola affrontavano con quella facilità che li faceva essere scolasticamente “bravi”. E che quindi avrebbero dovuto avere come minimo, la mia riconoscenza, perché a me facevano fare meno fatica. Eppure, erano quelli che mi sentivo più lontano, a parte quel senso di colpa che sentivo nei loro confronti per il timore che avevo a dargli scolasticamente il riconoscimento con quel voto che avrebbe però sancito gerarchie di valori che poi però non corrispondevano per intero al valore della persona, di un ragazzo nella sua globalità.[...]Non sono però le persone intelligenti, sempre, a far le cose che han valore, o che possono essere considerate tali. L'intelligenza da sola non basta, anche se è una gran dote. Ci sono persone intelligentissime che non hanno mai fatto di più che una vita mediocre, o che non si sono avviliti senza trovare qualcosa in cui buttarsi. È il cuore, è l'amore, è la sensibilità che ti danno e spinta e aiuto. Chi non riesce a farsi prendere da un amore, parlo sempre per il fare, inaridisce in intuizioni di possibilità che non realizzerà mai. Io non mi ritengo persona di tanta intelligenza: quel che ho fatto, te l'ho spiegato in qualcuna di queste pagine, o ho cercato di spiegartelo, mi è venuto perché son nato da gente povera, vi ho vissuto, e ne ho assorbito i valori e le frustrazioni, ed ho sempre voluto che quelli che son come me, sentissero che dobbiamo credere di essere, e farlo anche vedere e sentire, e farlo credere agli altri, ma più ai nostri figli. E ai figli dei nostri figli, fino a quando di noi, del nostro modo di essere e delle nostre condizioni, non resteranno più che quelle cose che con noi avrebbero potuto sparire, ma che noi non abbiamo voluto che sparissero: dovevano e devono testimoniare di noi, come siamo e come siamo stati veramente, e non aspettare che qualche archeologo, trovando un nostro ferro in uno scavo, si faccia dare dei miliardi, dallo stato, cioè da noi stessi, per cercare di sapere chi e come eravamo e magari per attribuirci cose, sentimenti, filosofie, ecc, che da sotto terra, se potessimo sentirli, rideremmo così rumorosamente, da provocare terremoti. Io ti scriverò solo questa lettera, tu tagliala in tanti pezzettini e falli diventare tante cartoline. Leggila quando ti consegnano, che sarà una barba. Son più bravo a parlare: ti ricordi quando, entrati in classe, si cominciava una discussione e si seguitava fino all'intervallo, per poi riprendere e tornare a casa senza avere aperto la cartella? Come vuoi che giudicassero bene un maestro che si perdeva a parlare e a far parlare i suoi scolari e basta? Io dovevo insegnare, cioè fare il maestro, altro che contare o ascoltare balle! Altro che programmare, vero Enrico? Magari il giorno prima si era detto: domani parleremo di …, e poi il giorno dopo non si apriva la cartella. O uno ti faceva una domanda, e noi andavamo fuori a vedere, a constatare. Hai imparato qualcosa tu, dalla mia scuola, che ti serva nella vita? Oltre a leggere e scrivere e far di conto? (Ognuno alla sua maniera, naturalmente). Ma sono arrivato in fondo, e altro foglio non lo prendo. Continua a pensare e a sentire, oltre che a vivere e a fare. Ma cerca di metterci anche un po' d'infanzia e di irriverenza, dentro di te. Con tanti auguri e ancora grazie.Ettore Guatelli